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Il Riflesso del Cinema: Ran, il respiro del Divenire

  • Salvo
  • 11 mar 2022
  • Tempo di lettura: 3 min

Rotten Tomatoes: 96 %

Voto The House: 9,4



Il film si apre sereno, in un Giappone del XVI secolo, con alture di montagne erbose sorvolate dal vento; è una bella giornata di sole, gruppi di uomini ossequiosamente si dispongono attorno al loro signore con distesi preparativi che ricordano un picnic. Nulla fa presagire il dramma che da lì a poco sconvolgerà quel microcosmo di terra e uomini. Un poeta esitante bisbiglia, con parole che tremolano nella luce che declina: “Parla So-Gioku: questo vento, sire, è vento di Re, /vento del real palazzo, /E ne frizzano zampilli… «tende di garza contengono il vento...» /«Il re non infeuda i venti...»”, (Ezra Pound, "Cantos").


Questi enigmatici versi, utilizzati come possibile chiave ermeneutica, ci parlano di Forze che da lontano giungono inaspettate per lontano andarsene libere, dopo avere svolto il loro compito cioè soffiare e soffiare, per sconvolgere e destrutturare rimodellando, così, l’esistente.

E Ran, sull’onda di quei soffi che si versano nelle scene iniziali, ci racconterà di guerre civili, tradimenti, pazzie e confusione, che devasteranno un ordine facendolo diventare caos. Se la Terra ed il Cielo sono le primitive e più elementari divisioni di un Tutto originante che vuole dispiegarsi nelle sue mille e mille produzioni, ecco che quelle forze abitano l’etereo, infinito ed indefinito spazio posto tra quella primigenia distinzione; e quelle forze, amalgamandosi, respingendosi, confondendosi, ricacciandosi opereranno, inevitabilmente, a far sorgere e mantenere le 10.000 creature e poi il loro regno, continuando nella loro opera di distruzione e creazione.



Certo, ci può stare che la pellicola (del maestro della Settima Arte Akira Kurosawa) racconti una fosca vicenda di uomini e dei loro affetti mal riposti, della fedeltà tradita, di miopi visioni o calcoli errati; è il prezzo che inevitabilmente si deve pagare per rivestire di carne e sentimenti una Metafisica i cui panni scespiriani (Lear porge la mano al suo collega Hidetora e Cordelia ad un fratello di nome Saburo) vengono presi a pretesto come uno dei tanti travestimenti della sua eterna recita. Maschere poderose ed inflessibili da teatro greco, si dirà, maschere agite in rito sacrale come quelle del teatro "Noh", ma comunque maschere che si servono di uomini che recitano un copione in cui, nel caso specifico, alberga un minuscolo tarlo, la non conoscenza dell’animo umano, che lentamente roderà, consumandolo dall’interno, un intero regno. Soffi sconvolgenti e arruffati, stridenti e conturbanti; ed ecco che a loro dobbiamo rivolgere la nostra attenzione e riconoscerli come i veri agenti che si servono di quelle maschere, le Potenze impassibili che noi possiamo solo intuire nei sogni o nelle visioni intorno al fuoco, negli interstizi della coscienza o nei confini delle cose. S’intende così, che il loro continuo comporsi e ricomporsi in Armonia e Contrapposizione sia necessità dell’esistere, spinta dialettica oltre la stasi, pòlemos perenne ma il cui fine è quello di ricondurre tutto all’Unità.



Certo, in Ran si costruisce ben poco, tutto si sfalda e precipita in fondo come una valanga che porta con sé uomini e cose, ma è proprio quello che si vuole mettere a fuoco, il momento in cui un mondo si disgrega ed uno nuovo bussa alle porte chiedendo il diritto di esistere. Sarà Tsurumaru, flautista cieco, che avrà il compito di cantarlo avanzando sull’orlo di un abisso (Vuoto che genererà le nuove Produzioni) o sarà egli l’ultimo cantore di ciò che è irrimediabilmente passato? Anche le Forze cosmogoniche abbisognano di un Epica e questa la raccontano gli uomini...

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